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"Giorno del Ricordo" 2011


«Giorno del Ricordo» … per non dimenticare



Il 10 febbraio 1947 furono firmati nella capitale francese i Trattati di Parigi fra “gli Alleati vincitori della seconda guerra mondiale e gli sconfitti Alleati della Germania all’interno dell’Asse Roma-Berlino”. Già le prime parole – “Alleati vincitori” e “sconfitti” – lasciavano intuire quale sarebbe stato il filo conduttore di questi documenti: onori e privilegi ai “vincitori” e dure pene agli “sconfitti”. Probabilmente è così in tutti i trattati che le potenze belligeranti concludono dopo una guerra, ma in questa occasione le sanzioni punitive imposte all’Italia (che figurava tra gli “sconfitti”) furono particolarmente pesanti L’Italia (oltre a restituire i territori francesi, jugoslavi e greci occupati durante la guerra e a pagare 360 milioni di dollari come risarcimento dei danni di guerra) doveva cedere alla Jugoslavia (“Alleato vincitore”) la città di Fiume, il territorio di Zara, le isole di Lagosta  e Pelagosa, l’Istria con la città di Pola, gran parte del Carso triestino e goriziano e l’alta valle dell’Isonzo. oltre all’isolotto di Sasèno, che passava all’Albania: in tutto 186 comuni, che appartenevano all’Italia dalla fine della prima guerra mondiale. Successivamente, col Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, furono ceduti alla Jugoslavia altri 11 comuni italiani. Furono fatte, inoltre, con gli stessi Trattati,  alcune lievi modifiche lungo il confine francese. Per i diplomatici delle varie nazioni, che sedevano intorno ai tavoli delle trattative nei confortevoli palazzi parigini, “Fiume”, Zara”, “ Pola”, “Istria”, “Carso” erano semplici nomi, forse letti distrattamente  su qualche carta geografica; ma avranno mai pensato, quei signori, che con quei termini venivano indicate terre in cui vivevano migliaia di uomini, donne, bambini che lì erano nati, vissuti, lì avevano le loro case, i loro affetti, i loro morti, le speranze di tutta una vita?
Questa mia relazione vuole appunto farvi comprendere che cosa hanno significato, per gli abitanti dei territori ceduti alla Jugoslavia, quelle decisioni espresse con poche aride parole su un foglio di carta denominato Trattato.
 La fine della seconda guerra mondiale segnò l’inizio, nelle nostre città, di un periodo molto travagliato, intessuto di odio e di rappresaglie, che determinò la morte di migliaia di italiani, barbaramente uccisi e gettati nelle foibe carsiche, e, alla fine, l’esodo di  almeno 350.000 giuliani e dalmati delle città di Fiume, Pola, Zara e di tutta la penisola istriana.
Quelle città avevano già molto sofferto durante la guerra, avevano subito massicci bombardamenti da parte degli alleati anglo-americani durante l’occupazione tedesca, seguita all’armistizio dell’8 settembre 1943. La città di Zara, che era stata per oltre vent’anni porto franco italiano sulla costa jugoslava, fu rasa al suolo da oltre cinquanta bombardamenti e ancora adesso non si conosce il perché di quel terrificante quanto inutile ed ingiustificato massacro. Anche la città di Fiume fu bombardata dagli alleati e subì vittime e danni rilevanti al porto ed alle sue strutture industriali.
Io sono nata a Fiume e nel 1945, anno da cui inizia la mia narrazione, ero una diciottenne che frequentava l’ultimo anno del Liceo classico. Mia madre era un’insegnante elementare, mio padre dirigeva il Centro Radio di Fiume, che era stato costruito nel 1923  su progetto dello stesso Guglielmo Marconi. Il Centro, uno dei primi attivato in Italia, era direttamente collegato con Roma e Budapest e stabiliva i contatti con le navi in rotta oceanica (nel 1944 fu fatto saltare con le mine dai tedeschi e così andarono perdute apparecchiature rice-trasmittenti di indubbio valore per la storia della radio). Avevo due fratelli più piccoli e mi preparavo a sostenere gli esami di maturità. La mia scuola era per metà inagibile a causa dei bombardamenti, ma, facendo dei turni a settimane alterne, riuscivamo a seguire con una certa regolarità le lezioni. Già da qualche anno il numero dei frequentanti era molto diminuito, perché tutti gli alunni di razza ebraica (come allora si diceva!) avevano dovuto abbandonare le scuole pubbliche e frequentavano una scuola privata istituita per loro dalla Comunità ebraica locale, piuttosto numerosa e ben organizzata.. Dei maschi, poi, alcuni erano già arruolati nell’esercito, altri dovevano prestare servizio di lavoro obbligatorio nella Todt, sotto la sorveglianza dei militari tedeschi.(anche mio fratello, che aveva appena compiuto sedici anni, fu arruolato in questa organizzazione). Gli anni della guerra, specialmente  dopo l’occupazione militare da parte della truppe tedesche, che avevano assunto pieni e assoluti poteri su tutto il territorio, erano stati molto difficili; i frequenti bombardamenti, il razionamento di tutti i viveri necessari a cominciare dal pane e dal latte ( riservato solo ai bambini sotto i tre anni), la mancanza di gas, carbone e legna per il riscaldamento nei gelidi inverni del nord, la difficoltà di procurarsi cappotti, vestiti pesanti, scarpe per ripararsi dal freddo, avevano messo in ginocchio la cittadinanza, che ormai era allo stremo delle forze. L’unica cosa che ci confortava era la speranza che la situazione sarebbe presto mutata, che la fine della guerra era ormai imminente. Ogni giorno appariva più chiaro che i tedeschi si preparavano ad abbandonare la città e che noi saremmo stati finalmente liberi di riappropriarci delle nostre terre e di ricostruire le nostre case distrutte, di riunire le nostre famiglie disperse dalla guerra … Nessuno immaginava che il periodo peggiore doveva ancora venire.
Ed arrivò, inaspettato e terribile, il 3 maggio 1945, quando, partiti nella notte i tedeschi, piombarono sulla città i partigiani del maresciallo Tito, cogliendo tutti di sorpresa, anche gli alleati anglo-americani, i quali non ebbero neppure il tempo di raggiungere Trieste, che fu anch’essa occupata dagli jugoslavi. I nuovi arrivati mostrarono subito le loro vere intenzioni, che erano quelle di annettere alla Jugoslavia Trieste, Fiume e tutta l’Istria, ed erano decisi ad usare qualunque mezzo, anche il più violento, per raggiungere il loro scopo. Già nelle prime ore del mattino, passando di casa in casa, avevano ucciso tutti i membri del Comitato di Liberazione, che si era costituito clandestinamente anche a Trieste e a Fiume. Esso era composto dai rappresentanti di tutti i partiti politici, compresi i comunisti, ed aveva instaurato contatti con i partigiani jugoslavi, opponendosi, tuttavia, all’idea che terre italiane potessero passare sotto il dominio straniero.
Nei giorni seguenti continuarono, a Trieste, a Fiume e in tutta l’Istria, gli arresti di  personaggi noti e meno noti, fascisti ed antifascisti, operai, impiegati, professionisti, artigiani, giovani e meno giovani. Venivano arrestati e non tornavano più nelle loro case: chi cercava di informarsi della loro sorte spariva spesso nel nulla. Due soli esempi,  fra i tanti, che mi colpirono in modo particolare: una giovane insegnante fiumana, moglie di un ufficiale della Marina italiana (era forse questa la sua colpa?) fu arrestata; la madre, la direttrice didattica della mia scuola elementare, si presentò alle carceri con la nipotina di pochi mesi per avere notizie, fu fatta entrare e anche di lei non si è saputo più nulla. Un’amica che l’accompagnava, a cui aveva affidato la bambina, attese fino a sera davanti al portone, ma inutilmente. Un’altra persona molto nota in città, l’ebreo antifascista Angelo Adam, uno dei pochi sopravvissuti a Dachau e appena rientrato a Fiume, fu arrestato con la moglie e la figlia: scomparvero tutti e tre. (note 1 e 2). Nei mesi di maggio e giugno 1945 furono arrestati e deportati per destinazione ignota 78 agenti della locale questura (l’ultimo Questore italiano di Fiume fu Giovanni Palatucci, morto ad Auschwitz perché colpevole di aver aiutato molti ebrei a sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi). Furono pure arrestati e deportati per ignota destinazione 50 militi della Guardia di Finanza e 10 carabinieri. Nel periodo dal 3 maggio 1945 al 31 dicembre 1947 furono arrestate, a Fiume e nei dintorni, 647 persone; della maggior parte di esse non si sono più avute notizie, di altre si sono trovati i miseri resti nelle foibe della zona carsica.
Gli stessi tragici fatti si verificarono nei medesimi anni a Trieste (dove l’occupazione durò solo quaranta giorni, ma causò decine e decine di morti), a Gorizia, a Pola e in tutta l’stria, a Zara. (n. 3).
Per diversi anni nessuno, né da parte jugoslava né da parte italiana, osò ammettere l’esistenza delle foibe: gli jugoslavi non potevano certo rendere palese il massacro perpetrato con tanta crudeltà e determinazione da far pensare ad una vera e propria pulizia etnica; gli italiani temevano di peggiorare ulteriormente  i già difficili rapporti diplomatici con i nuovi confinanti, i comunisti jugoslavi del maresciallo Tito. Tra le prime persone che ebbero il coraggio di denunciare l’orrore delle foibe ci fu un frate francescano nato a Neresine sull’isola di Lussino, nel Golfo del Quarnaro, padre Flaminio Rocchi, il quale fece porre finalmente una pietra ed un modesto cippo sulle foibe di Bassovizza e di Monrupino, nei pressi di Trieste, le uniche rimaste in territorio italiano,  le sole che si sono potute parzialmente esplorare. La maggior parte delle foibe si trova nei territori ceduti alla Jugoslavia, e di molte di esse non si sa ancora quasi nulla.
Quei poveri morti che tuttora giacciono ignorati in quelle caverne carsiche hanno dovuto pagare, senza averne spesso alcuna colpa, gli errori e le prepotenze  compiute, soprattutto durante il periodo fascista, nei riguardi delle minoranze slave che abitavano nei territori ceduti dopo la guerra.  Nella Venezia Giulia, soggetta attraverso i secoli alle più diverse dominazioni (dalla repubblica di Venezia all’impero austro-ungarico ed infine all’Italia)  non c’era una netta separazione tra gli abitanti di lingua italiana e quelli di lingua croata o slovena. Le città, come Gorizia, Trieste, Fiume, Pola, avevano una popolazione nella grandissima maggioranza italiana; nell’Istria erano italiane le cittadine sulla costa (Capodistria, Cittanova, Pirano, Parenzo, Rovigno, Albona), tutte città portuali fondate dalla repubblica veneta, mentre nelle zone più interne, meno sviluppate economicamente, gli abitanti, per lo più dediti all’agricoltura, erano in maggioranza croati o sloveni. Tutte queste diverse nazionalità impararono nei secoli a coabitare pacificamente, integrandosi fra loro senza particolari difficoltà, pur cercando di mantenere intatte le proprie caratteristiche. Durante la dominazione austriaca, ad esempio, c’erano a Fiume, accanto alle scuole italiane, che raccoglievano la maggior parte degli alunni, anche le scuole ungheresi e quelle croate, Molti fiumani e triestini parlavano, oltre all’italiano, il croato, l’ungherese e il tedesco; io stessa ho avuto compagni di scuola che avevano la mamma di origine croata e il papà italiano, o viceversa, e in casa parlavano indifferentemente le due lingue; e poteva magari capitare che parlassero in ungherese o in tedesco con i nonni. Era una cosa normale, nessuno trovava niente da obiettare.
Le cose cambiarono radicalmente dopo la prima guerra mondiale, soprattutto con l’avvento del fascismo, che, considerando gli slavi appartenenti ad una razza inferiore, non rispettò assolutamente i diritti delle minoranze. Durante il ventennio fascista era severamente proibito usare in pubblico le lingue croata e slovena; tutti i bambini dovevano frequentare  la scuola italiana, essendo state soppresse tutte le altre scuole; era proibita la stampa e la diffusione di libri e riviste slave; i cognomi slavi furono italianizzati d’ufficio e fu addirittura vietato ai genitori di imporre ai neonati nomi che non fossero italiani. Nelle chiese, durante le funzioni e nelle prediche, i sacerdoti non potevano usare il croato o lo sloveno e questo, specie nell’Istria, dove i contadini non capivano troppo l’italiano, creava non poche difficoltà.
La situazione si aggravò ulteriormente nella primavera del 1941, quando le truppe italiane invasero la Croazia, costituendo il Regno di Croazia con le nuove province di Lubiana e della Dalmazia. Come reazione all’aggressione militare si ebbe (ed era facile prevederlo) la formazione di un forte movimento partigiano, capeggiato dal maresciallo Tito. cui seguirono dure e feroci repressioni da parte degli italiani. Tra il 1941 e il 1943 in Croazia furono fucilati centinaia di ostaggi, incendiate migliaia di case, interi villaggi; furono deportate 30.000 persone, soprattutto vecchi, donne, bambini, molti dei quali morirono di stenti e di malattie. Non fu ascoltato l’appello del Vescovo di Trieste, mons. Antonio Santin, perché cessassero le feroci rappresaglie contro popolazioni inermi. Intanto gli slavi subivano in silenzio, ma sotto sotto covavano l’odio e il  desiderio di vendetta..
Fu con questi sentimenti che i partigiani di Tito occuparono le città della Venezia Giulia e della Dalmazia, nel maggio del 1945. Gli alleati anglo-americani cercavano una soluzione diplomatica a questa situazione e, sulla carta, tracciavano linee di confine più o meno accettabili: furono create una zona A, sotto l’amministrazione alleata, con Trieste, Pola e una parte di Gorizia (una parte, perché Gorizia vide passare il confine perfino attraverso le sue vie) e una zona B, sotto l’amministrazione jugoslava, con Fiume, le isole del Quarnaro e l’Istria; le due zone erano separate dalla Linea Morgan). Intanto i partigiani di Tito avevano mano libera nelle parti a loro affidate. Qui essi  imposero una moneta d’occupazione, la jugo-lira, che poteva circolare solo nei territori occupati; tutti i cittadini erano sotto il controllo dell’OZNA (n. 4), la polizia politica comunista, che aveva il potere di arrestare e decidere, senza alcun processo, chi era “nemico del popolo”, e quindi da eliminare, e chi non. Nessuno si sentiva al sicuro, gli arresti senza ritorno si susseguivano (n. 5). I viveri di prima necessità erano sempre più scarsi, molte persone perdevano il posto di lavoro per essere sostituite da gente di fiducia degli occupanti; le case venivano requisite, senza alcun risarcimento,  per ospitare le famiglie dei nuovi arrivati ed era già molto se veniva lasciata una stanza ai legittimi proprietari; venivano espropriati i negozi ed i loro padroni dovevano trasformarsi in semplici commessi in cambio di un modesto salario.
La vita era divenuta impossibile: con la morte nel cuore, ben presto gli italiani si convinsero che era necessario abbandonare le proprie città,  e cominciarono  a prepararsi alla partenza. Non fu facile abbandonare le nostre case, i luoghi dove eravamo nati e cresciuti, gli amici di una vita, le piccole cose quotidiane cui eravamo legati da sempre, le tombe dei nostri morti … In  molte famiglie si presentò il problema dei giovani, che volevano partire e crearsi un futuro di lavoro in Italia, e i più  anziani, gli ammalati, gli invalidi impossibilitati a muoversi, che temevano l’incertezza della partenza. C’erano poi spesso parenti, nonni, zii, cugini, che erano croati e, naturalmente, volevano rimanere; così molte famiglie dovettero dividersi.
La situazione si fece ancora più critica nel 1948 quando ai cittadini, residenti in quelle zone al 10 giugno 1940, fu imposta “l’opzione”, cioè la scelta tra la cittadinanza italiana e quella jugoslava: chi non optava per la cittadinanza italiana diveniva automaticamente, lui e i suoi figli, “cittadino dello stato subentrante”: così recitava l’art. 19 dei Trattati di Parigi, e questo nessuno di noi lo poteva accettare. Non fu facile prendere la decisione di partire, eppure non si poteva fare altro. Trecentocinquantamila italiani lasciarono la Venezia Giulia e la Dalmazia, senza voltarsi indietro, senza sapere a che cosa andavano incontro, verso un’Italia che faticosamente affrontava il suo cammino di democrazia e si preparava ad una lenta ricostruzione dopo gli anni di guerra.
Fiume era una città di 60.000 abitanti: almeno 55.000 abbandonarono la città, spesso portandosi dietro solo “i propri indumenti personali fino ad un massimo di 50 kg, nonché l’importo di lire 20.000”, come prescriveva la legge dei vincitori. La mia famiglia fu abbastanza fortunata, perché potemmo portar via i mobili e gli arredi  di casa, ma altri dovettero lasciare le loro belle ville con tutto quanto contenevano, mobili, tappeti, quadri, ricordi di famiglia. Al padre della mia più cara amica, uno dei fotografi più noti della città, fu impedito di portare con sé le attrezzature del suo studio e si ritrovò, a cinquant’anni, senza alcuna possibilità di lavorare. Nelle stesse condizioni si ridussero odontotecnici, orefici, falegnami, sarti e tanti altri artigiani specializzati, che partirono senza alcuna prospettiva di poter continuare il loro lavoro altrove (n. 6).
 In Italia ci aspettavano i campi profughi, allestiti quasi sempre in locali di fortuna, privi delle più elementari comodità e di requisiti igienici::vecchie caserme in disuso; depositi abbandonati, come il Silos di Trieste (un deposito per il grano senza neppure finestre, che risaliva ai tempi degli Asburgo), scuole fatiscenti. Qui i profughi dovettero arrangiarsi come potevano, cercando di ricavare almeno un minimo di privacy e di intimità per sé e per le proprie famiglie. Usando coperte, lenzuola, cartoni furono creati ambienti più piccoli, che avessero almeno la parvenza di una stanza, e in questi angusti spazi doveva vivere un’intera famiglia (n. 7). A tutto questo si aggiungeva la diffidenza degli abitanti locali (eravamo guardati un po’ come oggi noi guardiamo gli zingari e i senza dimora) e ci furono, purtroppo, anche isolate manifestazioni di ostilità da parte di accesi militanti comunisti, i quali non capivano perché avessimo lasciato la felice ( secondo loro) Jugoslavia. In queste disagiate condizioni gli esuli vissero per diversi anni, potendo contare solo su un sussidio governativo di poche centinaia di lire al giorno,  in attesa che fossero liquidati i cosiddetti  “danni di guerra”, un risarcimento per le case ed i beni abbandonati; tali somme, però, arrivarono solo dopo decine di anni e  coprirono meno di un terzo del valore che  quei beni avevano al tempo in cui erano stati lasciati.
Un altro gravissimo problema era, per i profughi, la mancanza di lavoro, per cui molti di essi dovettero affrontare una seconda, sofferta, umiliante emigrazione. E questa volta  loro meta furono terre ancor più  lontane, come l’America, il Canada, l’Australia e perfino la Nuova Zelanda: l’Italia e l’Europa erano troppo provate dalla guerra per poter offrire loro una sistemazione. Laggiù, operando con la pazienza, la tenacia, la dedizione al lavoro caratteristiche della loro terra d’origine,  gli esuli hanno potuto rifarsi una vita ed  inserirsi dignitosamente nelle varie comunità locali.
 Anche la mia famiglia partì da Fiume il 2 aprile 1946, diretta a Pisa, dove mio padre aveva ottenuto un novo incarico presso il Centro Radio di Coltano e d aveva anche ottenuto un modesto alloggio di servizio, il che ci permise di evitare i disagi e le umiliazioni dei campi profughi. Fu un viaggio molto disagiato, attraverso città semidistrutte dai bombardamenti e campagne incolte. Mi rivedo seduta su uno scomodo camion con altre famiglie, tra le nostre valigie; nessuno parlava, non avevamo il coraggio di guardarci negli occhi, per non scoppiare a piangere. Vedevamo la nostra città allontanarsi e pian piano scomparire, e sapevamo che “quella” città non l’avremmo rivista mai più. A Trieste salimmo su un vagone merci (allora i treni erano formati prevalentemente da tali carri) e dopo un’interminabile settimana giungemmo finalmente a Pisa. Fu durante quel viaggio che sentii parlare per la prima volta di democrazia, di partiti, di elezioni, di Costituzione ( nel giugno si sarebbero svolte le prime elezioni per la Costituente), tutte cose nuove per me, passata dal regime fascista a quello comunista.
Tutto questo succedeva più di sessanta anni fa, anni che sono stati densi di avvenimenti, anni in cui molte situazioni politiche sono profondamente mutate: il maresciallo Tito è morto, e con lui è scomparsa la vecchia Jugoslavia artificiosamente creata a tavolino dai “vincitori” della prima guerra mondiale, nel lontano 1918. Al suo posto, ai confini orientali dell’Italia, si affacciano ora due nuovi stati, due repubbliche, la Slovenia e la Croazia: la prima è già entrata a far parte dell’Unione Europea e la seconda è in positiva attesa. Dopo  anni di tensioni pare che finalmente qualcosa stia cambiando al confine orientale dell’Italia.
 Nell’autunno del 1993 è stata costituita una Commissione mista di studio composta da quattordici storici italiani e sloveni, i quali hanno cercato di ricostruire insieme la storia delle relazioni fra l’Italia e la Slovenia. Dopo  sette anni di lavori, condotti con “spirito di serena ricerca”, questi studiosi hanno riconosciuto che “ … Ci sono stati torti da entrambe le parti che possono spiegare, non certo giustificare, la violazione dei diritti elementari umani … anziché esasperare le ragioni del dissidio, dovremmo imparare che su una frontiera la prima legge che si impone è quella della pacifica convivenza. Che significa liberazione dai pregiudizi, contatti personali, rispetto di tutte le culture,”
Da allora si sono susseguiti piccoli ma significativi segnali di distensione: sono diventate obbligatorie le scritte bilingui nei cartelli stradali e turistici; i nomi delle città giuliane e dalmate, che prima erano scritti rigorosamente in croato, ora sono indicati in entrambe le lingue; le minoranze italiane hanno potuto creare propri circoli culturali ed avere giornali nella propria lingua; sono stati riaperti gli storici licei italiani di Fiume, Pola e Rovigno e si stanno stabilendo contatti fra queste scuole e quelle corrispondenti in Italia; il Comune di Roma da tre anni organizza un “ Viaggio nella civiltà istriana e dalmata”, che quest’anno ha portato duecento studenti e cinquanta docenti a visitare i luoghi della memoria più importanti del nostro confine orientale ( il Sacrario di Redipuglia, il Campo Profughi di Padriciano, la Foiba di Bassovizza, la Risiera di San Sabba); è di questi giorni la notizia della pubblicazione di un libro (scritto in sloveno con testo a fronte in italiano) che riguarda la vita e le opere dello scrittore sloveno Ivo Andrič, autore del romanzo “Il ponte sulla Drina”, premio Nobel per la letteratura.
Nel luglio del 2010, infine, dopo anni di trattative e tensioni diplomatiche, si è realizzato un evento al quale, purtroppo, i mezzi di comunicazione italiani non hanno dato il giusto risalto. A Trieste, in Piazza dell’Unità, il Maestro Riccardo Muti con la sua Orchestra  “Cherubini”, formata da giovani di tutta l’Europa, ha organizzato un concerto al quale hanno assistito, per la prima volta tutti e tre insieme, i presidenti degli Stati confinanti, l’italiano Giorgio Napolitano, lo sloveno Danilo Turk e il croato Ivo Josipovič. Il coro, per l’occasione, era formato da giovani italiani, croati e sloveni. Dopo il concerto i tre presidenti sono andati insieme a deporre una corona floreale in due luoghi simbolo delle reciproche ferite: l’ex Hotel Balkan, centro culturale sloveno dato alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani, e il monumento in ricordo dei 350.000 esuli  dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia.
E’ stato bello vedere i tre presidenti stringersi la mano e chinarsi reverenti davanti ai monumenti che  ricordano il più lontano e il recente passato. E’ un primo segno che le ferite lasciate dalla guerra cominciano a rimarginarsi. Questo non annulla certamente, per noi profughi e per quanti piangono i loro cari sepolti nelle foibe, i dolori e le sofferenze patite, ma costituisce per tutti, e soprattutto per noi, un segno di speranza per il futuro,
Afferma lo scrittore triestino Claudio Magris:  “ … la memoria  è carità e giustizia per le vittime del male e del dolore ...   essa va ritrovata e custodita con amore e con rispetto. “  Il Giorno del ricordo”, che oggi insieme celebriamo, deve stimolarci a creare  in tutti noi, ma specialmente nelle giovani generazioni, una nuova coscienza, che sappia  rispettare gli altri, al di là delle apparenze e dei pregiudizi, che sappia comprendere le necessità  dei più deboli e che si impegni ad instaurare fra gli uomini un dialogo veramente costruttivo, capace di risolvere, in armonia e giustizia, eventuali divergenze. Solo così potremo evitare le guerre ed i freddi Trattati, con cui pochi individui si arrogano il diritto di imporre dall’alto le loro unilaterali decisioni.


..                                                            Maria  Marinari  Moro


  


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