«Giorno del Ricordo» … per non dimenticare
Il 10 febbraio 1947 furono firmati
nella capitale francese i Trattati di Parigi fra “gli Alleati vincitori della
seconda guerra mondiale e gli sconfitti Alleati della Germania all’interno
dell’Asse Roma-Berlino”. Già le prime parole – “Alleati vincitori” e
“sconfitti” – lasciavano intuire quale sarebbe stato il filo conduttore di
questi documenti: onori e privilegi ai “vincitori” e dure pene agli “sconfitti”.
Probabilmente è così in tutti i trattati che le potenze belligeranti concludono
dopo una guerra, ma in questa occasione le sanzioni punitive imposte all’Italia
(che figurava tra gli “sconfitti”) furono particolarmente pesanti L’Italia
(oltre a restituire i territori francesi, jugoslavi e greci occupati durante la
guerra e a pagare 360 milioni di dollari come risarcimento dei danni di guerra)
doveva cedere alla Jugoslavia (“Alleato vincitore”) la città di Fiume, il
territorio di Zara, le isole di Lagosta e Pelagosa, l’Istria con la città di Pola,
gran parte del Carso triestino e goriziano e l’alta valle dell’Isonzo. oltre
all’isolotto di Sasèno, che passava all’Albania: in tutto 186 comuni, che
appartenevano all’Italia dalla fine della prima guerra mondiale. Successivamente,
col Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, furono ceduti alla Jugoslavia altri
11 comuni italiani. Furono fatte, inoltre, con gli stessi Trattati, alcune lievi modifiche lungo il confine
francese. Per i diplomatici delle varie nazioni, che sedevano intorno ai tavoli
delle trattative nei confortevoli palazzi parigini, “Fiume”, Zara”, “ Pola”,
“Istria”, “Carso” erano semplici nomi, forse letti distrattamente su qualche carta geografica; ma avranno mai
pensato, quei signori, che con quei termini venivano indicate terre in cui
vivevano migliaia di uomini, donne, bambini che lì erano nati, vissuti, lì
avevano le loro case, i loro affetti, i loro morti, le speranze di tutta una
vita?
Questa mia relazione vuole appunto
farvi comprendere che cosa hanno significato, per gli abitanti dei territori ceduti
alla Jugoslavia, quelle decisioni espresse con poche aride parole su un foglio
di carta denominato Trattato.
La fine della seconda guerra mondiale segnò
l’inizio, nelle nostre città, di un periodo molto travagliato, intessuto di odio
e di rappresaglie, che determinò la morte di migliaia di italiani, barbaramente
uccisi e gettati nelle foibe carsiche, e, alla fine, l’esodo di almeno 350.000 giuliani e dalmati delle città
di Fiume, Pola, Zara e di tutta la penisola istriana.
Quelle città avevano già molto sofferto
durante la guerra, avevano subito massicci bombardamenti da parte degli alleati
anglo-americani durante l’occupazione tedesca, seguita all’armistizio dell’8
settembre 1943. La città di Zara, che era stata per oltre vent’anni porto
franco italiano sulla costa jugoslava, fu rasa al suolo da oltre cinquanta
bombardamenti e ancora adesso non si conosce il perché di quel terrificante
quanto inutile ed ingiustificato massacro. Anche la città di Fiume fu
bombardata dagli alleati e subì vittime e danni rilevanti al porto ed alle sue
strutture industriali.
Io sono nata a Fiume e nel 1945, anno
da cui inizia la mia narrazione, ero una diciottenne che frequentava l’ultimo
anno del Liceo classico. Mia madre era un’insegnante elementare, mio padre
dirigeva il Centro Radio di Fiume, che era stato costruito nel 1923 su progetto dello stesso Guglielmo Marconi. Il
Centro, uno dei primi attivato in Italia, era direttamente collegato con Roma e
Budapest e stabiliva i contatti con le navi in rotta oceanica (nel 1944 fu
fatto saltare con le mine dai tedeschi e così andarono perdute apparecchiature
rice-trasmittenti di indubbio valore per la storia della radio). Avevo due
fratelli più piccoli e mi preparavo a sostenere gli esami di maturità. La mia
scuola era per metà inagibile a causa dei bombardamenti, ma, facendo dei turni
a settimane alterne, riuscivamo a seguire con una certa regolarità le lezioni. Già
da qualche anno il numero dei frequentanti era molto diminuito, perché tutti
gli alunni di razza ebraica (come allora si diceva!) avevano dovuto abbandonare
le scuole pubbliche e frequentavano una scuola privata istituita per loro dalla
Comunità ebraica locale, piuttosto numerosa e ben organizzata.. Dei maschi,
poi, alcuni erano già arruolati nell’esercito, altri dovevano prestare servizio
di lavoro obbligatorio nella Todt, sotto la sorveglianza dei militari
tedeschi.(anche mio fratello, che aveva appena compiuto sedici anni, fu
arruolato in questa organizzazione). Gli anni della guerra, specialmente dopo l’occupazione militare da parte della
truppe tedesche, che avevano assunto pieni e assoluti poteri su tutto il
territorio, erano stati molto difficili; i frequenti bombardamenti, il
razionamento di tutti i viveri necessari a cominciare dal pane e dal latte (
riservato solo ai bambini sotto i tre anni), la mancanza di gas, carbone e
legna per il riscaldamento nei gelidi inverni del nord, la difficoltà di
procurarsi cappotti, vestiti pesanti, scarpe per ripararsi dal freddo, avevano
messo in ginocchio la cittadinanza, che ormai era allo stremo delle forze.
L’unica cosa che ci confortava era la speranza che la situazione sarebbe presto
mutata, che la fine della guerra era ormai imminente. Ogni giorno appariva più
chiaro che i tedeschi si preparavano ad abbandonare la città e che noi saremmo
stati finalmente liberi di riappropriarci delle nostre terre e di ricostruire
le nostre case distrutte, di riunire le nostre famiglie disperse dalla guerra …
Nessuno immaginava che il periodo peggiore doveva ancora venire.
Ed arrivò, inaspettato e terribile, il
3 maggio 1945, quando, partiti nella notte i tedeschi, piombarono sulla città i
partigiani del maresciallo Tito, cogliendo tutti di sorpresa, anche gli alleati
anglo-americani, i quali non ebbero neppure il tempo di raggiungere Trieste,
che fu anch’essa occupata dagli jugoslavi. I nuovi arrivati mostrarono subito
le loro vere intenzioni, che erano quelle di annettere alla Jugoslavia Trieste,
Fiume e tutta l’Istria, ed erano decisi ad usare qualunque mezzo, anche il più
violento, per raggiungere il loro scopo. Già nelle prime ore del mattino,
passando di casa in casa, avevano ucciso tutti i membri del Comitato di
Liberazione, che si era costituito clandestinamente anche a Trieste e a Fiume.
Esso era composto dai rappresentanti di tutti i partiti politici, compresi i
comunisti, ed aveva instaurato contatti con i partigiani jugoslavi,
opponendosi, tuttavia, all’idea che terre italiane potessero passare sotto il
dominio straniero.
Nei giorni seguenti continuarono, a
Trieste, a Fiume e in tutta l’Istria, gli arresti di personaggi noti e meno noti, fascisti ed
antifascisti, operai, impiegati, professionisti, artigiani, giovani e meno
giovani. Venivano arrestati e non tornavano più nelle loro case: chi cercava di
informarsi della loro sorte spariva spesso nel nulla. Due soli esempi, fra i tanti, che mi colpirono in modo
particolare: una giovane insegnante fiumana, moglie di un ufficiale della
Marina italiana (era forse questa la sua colpa?) fu arrestata; la madre, la
direttrice didattica della mia scuola elementare, si presentò alle carceri con
la nipotina di pochi mesi per avere notizie, fu fatta entrare e anche di lei non
si è saputo più nulla. Un’amica che l’accompagnava, a cui aveva affidato la
bambina, attese fino a sera davanti al portone, ma inutilmente. Un’altra
persona molto nota in città, l’ebreo antifascista Angelo Adam, uno dei pochi sopravvissuti
a Dachau e appena rientrato a Fiume, fu arrestato con la moglie e la figlia:
scomparvero tutti e tre. (note 1 e 2). Nei mesi di maggio e giugno 1945 furono
arrestati e deportati per destinazione ignota 78 agenti della locale questura
(l’ultimo Questore italiano di Fiume fu Giovanni Palatucci, morto ad Auschwitz
perché colpevole di aver aiutato molti ebrei a sottrarsi alla cattura da parte
dei tedeschi). Furono pure arrestati e deportati per ignota destinazione 50
militi della Guardia di Finanza e 10 carabinieri. Nel periodo dal 3 maggio 1945
al 31 dicembre 1947 furono arrestate, a Fiume e nei dintorni, 647 persone;
della maggior parte di esse non si sono più avute notizie, di altre si sono
trovati i miseri resti nelle foibe della zona carsica.
Gli stessi tragici fatti si
verificarono nei medesimi anni a Trieste (dove l’occupazione durò solo quaranta
giorni, ma causò decine e decine di morti), a Gorizia, a Pola e in tutta l’stria,
a Zara. (n. 3).
Per diversi anni nessuno, né da parte
jugoslava né da parte italiana, osò ammettere l’esistenza delle foibe: gli
jugoslavi non potevano certo rendere palese il massacro perpetrato con tanta
crudeltà e determinazione da far pensare ad una vera e propria pulizia etnica; gli
italiani temevano di peggiorare ulteriormente i già difficili rapporti diplomatici con i
nuovi confinanti, i comunisti jugoslavi del maresciallo Tito. Tra le prime
persone che ebbero il coraggio di denunciare l’orrore delle foibe ci fu un
frate francescano nato a Neresine sull’isola di Lussino, nel Golfo del Quarnaro,
padre Flaminio Rocchi, il quale fece porre finalmente una pietra ed un modesto
cippo sulle foibe di Bassovizza e di Monrupino, nei pressi di Trieste, le
uniche rimaste in territorio italiano, le sole che si sono potute parzialmente
esplorare. La maggior parte delle foibe si trova nei territori ceduti alla Jugoslavia,
e di molte di esse non si sa ancora quasi nulla.
Quei poveri morti che tuttora giacciono
ignorati in quelle caverne carsiche hanno dovuto pagare, senza averne spesso
alcuna colpa, gli errori e le prepotenze compiute, soprattutto durante il periodo
fascista, nei riguardi delle minoranze slave che abitavano nei territori ceduti
dopo la guerra. Nella Venezia Giulia,
soggetta attraverso i secoli alle più diverse dominazioni (dalla repubblica di
Venezia all’impero austro-ungarico ed infine all’Italia) non c’era una netta separazione tra gli abitanti
di lingua italiana e quelli di lingua croata o slovena. Le città, come Gorizia,
Trieste, Fiume, Pola, avevano una popolazione nella grandissima maggioranza
italiana; nell’Istria erano italiane le cittadine sulla costa (Capodistria,
Cittanova, Pirano, Parenzo, Rovigno, Albona), tutte città portuali fondate
dalla repubblica veneta, mentre nelle zone più interne, meno sviluppate economicamente,
gli abitanti, per lo più dediti all’agricoltura, erano in maggioranza croati o
sloveni. Tutte queste diverse nazionalità impararono nei secoli a coabitare
pacificamente, integrandosi fra loro senza particolari difficoltà, pur cercando
di mantenere intatte le proprie caratteristiche. Durante la dominazione
austriaca, ad esempio, c’erano a Fiume, accanto alle scuole italiane, che raccoglievano
la maggior parte degli alunni, anche le scuole ungheresi e quelle croate, Molti
fiumani e triestini parlavano, oltre all’italiano, il croato, l’ungherese e il
tedesco; io stessa ho avuto compagni di scuola che avevano la mamma di origine
croata e il papà italiano, o viceversa, e in casa parlavano indifferentemente
le due lingue; e poteva magari capitare che parlassero in ungherese o in tedesco
con i nonni. Era una cosa normale, nessuno trovava niente da obiettare.
Le cose cambiarono radicalmente dopo la
prima guerra mondiale, soprattutto con l’avvento del fascismo, che,
considerando gli slavi appartenenti ad una razza inferiore, non rispettò assolutamente
i diritti delle minoranze. Durante il ventennio fascista era severamente
proibito usare in pubblico le lingue croata e slovena; tutti i bambini dovevano
frequentare la scuola italiana, essendo
state soppresse tutte le altre scuole; era proibita la stampa e la diffusione
di libri e riviste slave; i cognomi slavi furono italianizzati d’ufficio e fu
addirittura vietato ai genitori di imporre ai neonati nomi che non fossero italiani.
Nelle chiese, durante le funzioni e nelle prediche, i sacerdoti non potevano
usare il croato o lo sloveno e questo, specie nell’Istria, dove i contadini non
capivano troppo l’italiano, creava non poche difficoltà.
La situazione si aggravò ulteriormente
nella primavera del 1941, quando le truppe italiane invasero la Croazia, costituendo il
Regno di Croazia con le nuove province di Lubiana e della Dalmazia. Come
reazione all’aggressione militare si ebbe (ed era facile prevederlo) la
formazione di un forte movimento partigiano, capeggiato dal maresciallo Tito.
cui seguirono dure e feroci repressioni da parte degli italiani. Tra il 1941 e
il 1943 in
Croazia furono fucilati centinaia di ostaggi, incendiate migliaia di case,
interi villaggi; furono deportate 30.000 persone, soprattutto vecchi, donne,
bambini, molti dei quali morirono di stenti e di malattie. Non fu ascoltato
l’appello del Vescovo di Trieste, mons. Antonio Santin, perché cessassero le
feroci rappresaglie contro popolazioni inermi. Intanto gli slavi subivano in
silenzio, ma sotto sotto covavano l’odio e il desiderio di vendetta..
Fu con questi sentimenti che i
partigiani di Tito occuparono le città della Venezia Giulia e della Dalmazia,
nel maggio del 1945. Gli alleati anglo-americani cercavano una soluzione
diplomatica a questa situazione e, sulla carta, tracciavano linee di confine
più o meno accettabili: furono create una zona A, sotto l’amministrazione
alleata, con Trieste, Pola e una parte di Gorizia (una parte, perché Gorizia
vide passare il confine perfino attraverso le sue vie) e una zona B, sotto
l’amministrazione jugoslava, con Fiume, le isole del Quarnaro e l’Istria; le
due zone erano separate dalla Linea Morgan). Intanto i partigiani di Tito avevano
mano libera nelle parti a loro affidate. Qui essi imposero una moneta d’occupazione, la
jugo-lira, che poteva circolare solo nei territori occupati; tutti i cittadini
erano sotto il controllo dell’OZNA (n. 4), la polizia politica comunista, che
aveva il potere di arrestare e decidere, senza alcun processo, chi era “nemico
del popolo”, e quindi da eliminare, e chi non. Nessuno si sentiva al sicuro,
gli arresti senza ritorno si susseguivano (n. 5). I viveri di prima necessità
erano sempre più scarsi, molte persone perdevano il posto di lavoro per essere
sostituite da gente di fiducia degli occupanti; le case venivano requisite,
senza alcun risarcimento, per ospitare
le famiglie dei nuovi arrivati ed era già molto se veniva lasciata una stanza
ai legittimi proprietari; venivano espropriati i negozi ed i loro padroni
dovevano trasformarsi in semplici commessi in cambio di un modesto salario.
La vita era divenuta impossibile: con
la morte nel cuore, ben presto gli italiani si convinsero che era necessario
abbandonare le proprie città, e
cominciarono a prepararsi alla partenza.
Non fu facile abbandonare le nostre case, i luoghi dove eravamo nati e
cresciuti, gli amici di una vita, le piccole cose quotidiane cui eravamo legati
da sempre, le tombe dei nostri morti … In molte famiglie si presentò il problema dei giovani,
che volevano partire e crearsi un futuro di lavoro in Italia, e i più anziani, gli ammalati, gli invalidi
impossibilitati a muoversi, che temevano l’incertezza della partenza. C’erano
poi spesso parenti, nonni, zii, cugini, che erano croati e, naturalmente,
volevano rimanere; così molte famiglie dovettero dividersi.
La situazione si fece ancora più
critica nel 1948 quando ai cittadini, residenti in quelle zone al 10 giugno
1940, fu imposta “l’opzione”, cioè la scelta tra la cittadinanza italiana e
quella jugoslava: chi non optava per la cittadinanza italiana diveniva automaticamente,
lui e i suoi figli, “cittadino dello stato subentrante”: così recitava l’art.
19 dei Trattati di Parigi, e questo nessuno di noi lo poteva accettare. Non fu
facile prendere la decisione di partire, eppure non si poteva fare altro.
Trecentocinquantamila italiani lasciarono la Venezia Giulia e la Dalmazia, senza voltarsi
indietro, senza sapere a che cosa andavano incontro, verso un’Italia che
faticosamente affrontava il suo cammino di democrazia e si preparava ad una
lenta ricostruzione dopo gli anni di guerra.
Fiume era una città di 60.000 abitanti:
almeno 55.000 abbandonarono la città, spesso portandosi dietro solo “i propri
indumenti personali fino ad un massimo di 50 kg, nonché l’importo di lire 20.000”, come prescriveva
la legge dei vincitori. La mia famiglia fu abbastanza fortunata, perché potemmo
portar via i mobili e gli arredi di
casa, ma altri dovettero lasciare le loro belle ville con tutto quanto contenevano,
mobili, tappeti, quadri, ricordi di famiglia. Al padre della mia più cara
amica, uno dei fotografi più noti della città, fu impedito di portare con sé le
attrezzature del suo studio e si ritrovò, a cinquant’anni, senza alcuna
possibilità di lavorare. Nelle stesse condizioni si ridussero odontotecnici,
orefici, falegnami, sarti e tanti altri artigiani specializzati, che partirono
senza alcuna prospettiva di poter continuare il loro lavoro altrove (n. 6).
In
Italia ci aspettavano i campi profughi, allestiti quasi sempre in locali di
fortuna, privi delle più elementari comodità e di requisiti igienici::vecchie
caserme in disuso; depositi abbandonati, come il Silos di Trieste (un deposito
per il grano senza neppure finestre, che risaliva ai tempi degli Asburgo),
scuole fatiscenti. Qui i profughi dovettero arrangiarsi come potevano, cercando
di ricavare almeno un minimo di privacy e di intimità per sé e per le proprie famiglie.
Usando coperte, lenzuola, cartoni furono creati ambienti più piccoli, che
avessero almeno la parvenza di una stanza, e in questi angusti spazi doveva
vivere un’intera famiglia (n. 7). A tutto questo si aggiungeva la diffidenza degli
abitanti locali (eravamo guardati un po’ come oggi noi guardiamo gli zingari e
i senza dimora) e ci furono, purtroppo, anche isolate manifestazioni di
ostilità da parte di accesi militanti comunisti, i quali non capivano perché
avessimo lasciato la felice ( secondo loro) Jugoslavia. In queste disagiate
condizioni gli esuli vissero per diversi anni, potendo contare solo su un
sussidio governativo di poche centinaia di lire al giorno, in attesa che fossero liquidati i
cosiddetti “danni di guerra”, un
risarcimento per le case ed i beni abbandonati; tali somme, però, arrivarono
solo dopo decine di anni e coprirono
meno di un terzo del valore che quei beni
avevano al tempo in cui erano stati lasciati.
Un altro gravissimo problema era, per i
profughi, la mancanza di lavoro, per cui molti di essi dovettero affrontare una
seconda, sofferta, umiliante emigrazione. E questa volta loro meta furono terre ancor più lontane, come l’America, il Canada,
l’Australia e perfino la Nuova Zelanda:
l’Italia e l’Europa erano troppo provate dalla guerra per poter offrire loro una
sistemazione. Laggiù, operando con la pazienza, la tenacia, la dedizione al
lavoro caratteristiche della loro terra d’origine, gli esuli hanno potuto rifarsi una vita ed inserirsi dignitosamente nelle varie comunità
locali.
Anche la mia famiglia partì da Fiume il 2
aprile 1946, diretta a Pisa, dove mio padre aveva ottenuto un novo incarico
presso il Centro Radio di Coltano e d aveva anche ottenuto un modesto alloggio
di servizio, il che ci permise di evitare i disagi e le umiliazioni dei campi
profughi. Fu un viaggio molto disagiato, attraverso città semidistrutte dai
bombardamenti e campagne incolte. Mi rivedo seduta su uno scomodo camion con
altre famiglie, tra le nostre valigie; nessuno parlava, non avevamo il coraggio
di guardarci negli occhi, per non scoppiare a piangere. Vedevamo la nostra
città allontanarsi e pian piano scomparire, e sapevamo che “quella” città non
l’avremmo rivista mai più. A Trieste salimmo su un vagone merci (allora i treni
erano formati prevalentemente da tali carri) e dopo un’interminabile settimana
giungemmo finalmente a Pisa. Fu durante quel viaggio che sentii parlare per la
prima volta di democrazia, di partiti, di elezioni, di Costituzione ( nel
giugno si sarebbero svolte le prime elezioni per la Costituente), tutte
cose nuove per me, passata dal regime fascista a quello comunista.
Tutto questo succedeva più di sessanta anni
fa, anni che sono stati densi di avvenimenti, anni in cui molte situazioni
politiche sono profondamente mutate: il maresciallo Tito è morto, e con lui è
scomparsa la vecchia Jugoslavia artificiosamente creata a tavolino dai
“vincitori” della prima guerra mondiale, nel lontano 1918. Al suo posto, ai confini
orientali dell’Italia, si affacciano ora due nuovi stati, due repubbliche, la Slovenia e la Croazia: la prima è già
entrata a far parte dell’Unione Europea e la seconda è in positiva attesa. Dopo anni di tensioni pare che finalmente qualcosa
stia cambiando al confine orientale dell’Italia.
Nell’autunno del 1993 è stata costituita una
Commissione mista di studio composta da quattordici storici italiani e sloveni,
i quali hanno cercato di ricostruire insieme la storia delle relazioni fra
l’Italia e la Slovenia. Dopo
sette anni di lavori, condotti con “spirito
di serena ricerca”, questi studiosi hanno riconosciuto che “ … Ci sono stati torti
da entrambe le parti che possono spiegare, non certo giustificare, la
violazione dei diritti elementari umani … anziché esasperare le ragioni del
dissidio, dovremmo imparare che su una frontiera la prima legge che si impone è
quella della pacifica convivenza. Che significa liberazione dai pregiudizi,
contatti personali, rispetto di tutte le culture,”
Da allora si sono susseguiti piccoli ma
significativi segnali di distensione: sono diventate obbligatorie le scritte
bilingui nei cartelli stradali e turistici; i nomi delle città giuliane e
dalmate, che prima erano scritti rigorosamente in croato, ora sono indicati in
entrambe le lingue; le minoranze italiane hanno potuto creare propri circoli
culturali ed avere giornali nella propria lingua; sono stati riaperti gli
storici licei italiani di Fiume, Pola e Rovigno e si stanno stabilendo contatti
fra queste scuole e quelle corrispondenti in Italia; il Comune di Roma da tre
anni organizza un “ Viaggio nella civiltà istriana e dalmata”, che quest’anno
ha portato duecento studenti e cinquanta docenti a visitare i luoghi della
memoria più importanti del nostro confine orientale ( il Sacrario di
Redipuglia, il Campo Profughi di Padriciano, la Foiba di Bassovizza, la Risiera di San Sabba); è
di questi giorni la notizia della pubblicazione di un libro (scritto in sloveno
con testo a fronte in italiano) che riguarda la vita e le opere dello scrittore
sloveno Ivo Andrič, autore del romanzo “Il ponte sulla Drina”, premio Nobel per
la letteratura.
Nel luglio del 2010, infine, dopo anni
di trattative e tensioni diplomatiche, si è realizzato un evento al quale,
purtroppo, i mezzi di comunicazione italiani non hanno dato il giusto risalto.
A Trieste, in Piazza dell’Unità, il Maestro Riccardo Muti con la sua Orchestra “Cherubini”, formata da giovani di tutta
l’Europa, ha organizzato un concerto al quale hanno assistito, per la prima
volta tutti e tre insieme, i presidenti degli Stati confinanti, l’italiano
Giorgio Napolitano, lo sloveno Danilo Turk e il croato Ivo Josipovič. Il coro,
per l’occasione, era formato da giovani italiani, croati e sloveni. Dopo il
concerto i tre presidenti sono andati insieme a deporre una corona floreale in
due luoghi simbolo delle reciproche ferite: l’ex Hotel Balkan, centro culturale
sloveno dato alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani, e il monumento in
ricordo dei 350.000 esuli dalla Venezia
Giulia e dalla Dalmazia.
E’ stato bello vedere i tre presidenti
stringersi la mano e chinarsi reverenti davanti ai monumenti che ricordano il più lontano e il recente
passato. E’ un primo segno che le ferite lasciate dalla guerra cominciano a
rimarginarsi. Questo non annulla certamente, per noi profughi e per quanti
piangono i loro cari sepolti nelle foibe, i dolori e le sofferenze patite, ma
costituisce per tutti, e soprattutto per noi, un segno di speranza per il
futuro,
Afferma lo scrittore triestino Claudio
Magris: “ … la memoria è carità e giustizia per le vittime del male
e del dolore ... essa va ritrovata e
custodita con amore e con rispetto. “ Il
Giorno del ricordo”, che oggi insieme celebriamo, deve stimolarci a creare in tutti noi, ma specialmente nelle giovani
generazioni, una nuova coscienza, che sappia
rispettare gli altri, al di là delle apparenze e dei pregiudizi, che
sappia comprendere le necessità dei più
deboli e che si impegni ad instaurare fra gli uomini un dialogo veramente
costruttivo, capace di risolvere, in armonia e giustizia, eventuali divergenze.
Solo così potremo evitare le guerre ed i freddi Trattati, con cui pochi
individui si arrogano il diritto di imporre dall’alto le loro unilaterali decisioni.
.. Maria
Marinari Moro
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